Tradizione culinaria fiorentina

La Toscana è una regione aperta agli scambi e all’ibridazione delle culture, ma la sua dimensione regionale è caratterizzata, da sempre, da una forte compattezza territoriale: stabilità dei confini e politica hanno aumentato la propensione al consolidarsi di abitudini come anche il cucinare e l’alimentarsi.

La fonte di riferimento per inquadrare l’ambiente geografico e storico della attuale Toscana rimane il Dizionario geografico fisico storico della Toscana di Emanuele Repetti[1]. Emanuele Repetti (Carrara, 1776 – Firenze, 1852), di professione chimico, si dedicò a numerosi viaggi nel territorio toscano, dei quali redigeva descrizioni e rilievi, annotando dati storici e peculiarità, che trovarono unità nel Dizionario,  stampato in 6 volumi a Firenze presso l’Autore: il I nel 1833, il II nel 1835, il III nel 1839, il IV nel 1841 e il V tra il 1843 e il 1845.

Quando furono pubblicati i primi fascicoli del Dizionario, la Toscana Granducale era divisa nei cinque Compartimenti di Firenze, Pisa, Siena, Arezzo e Grosseto, ma Repetti (Repetti 1833, Avvertimento, p. XI)  supera questa divisione, ampliando la prospettiva del Granducato alla Romagna e Massa Trabaria granducale, alle isole, alla valle della Magra e del Serchio, al territorio della Spezia, al Ducato di Lucca, alla Garfagnana granducale ed estense, adottando un criterio culturale molto più generale.

A tutte le località, nel senso più lato del termine, riservò articoli specifici, in cui erano compresi anche dati di carattere generale o di compendio, per fornire un inquadramento dettagliato e trasversale.

I riferimenti storici forniscono, quindi, l’intelaiatura su cui si disegna il paesaggio produttivo della campagna toscana, dalle fonti classiche, al delinearsi dei suoi tratti caratteristici con la crisi del sistema feudale curtense, alla successiva crescita dell’industria, che determinò nuovi sistemi di organizzazione del territorio e, dunque, nuovi tipi di paesaggio rurale, condizionati, in parte, dai fattori fisici e naturali, quali il clima, la forma del terreno e la permeabilità del suolo, e, in parte, dai fattori umani, come l’entità dell’impegno imprenditoriale della proprietà fondiaria.

Il paesaggio che si era delineato in Toscana nel tardo Medioevo, quindi, continuava ad offrire una vera e propria tripartizione agraria-paesistica, sociale ed economica, che caratterizzò la regione anche nei secoli successivi, nelle sue connotazioni culturali e nelle sue tradizioni gastronomiche, che non possono prescindere dalla fisionomia del suo territorio:

Il cuore della formazione della tradizione alimentare toscana è, infatti, nel Basso Medioevo, quando si verificò un significativo aumento demografico e fu necessario prevedere un ampliamento dello spazio coltivato, intensificando lo sfruttamento delle terre e cercando prodotti alimentari  che integrassero o sostituissero i cereali: da una parte, si usò la coltura promiscua (cereali e piante), dall’altra, gli abitanti della montagna ricorsero ai castagneti da frutto, che mutarono le caratteristiche del mantello boschivo, dall’estremità occidentale dell’Appennino, fino all’Amiata. Le castagne, infatti, ebbero il merito di salvare la popolazione toscana dalla diffusione della pellagra, nel corso del XVIII secolo: parte della produzione veniva consumata prima dell’essiccatura, una parte delle biade serviva ad alimentare gli animali e, in tempi di carestia, il consumo da parte degli uomini tendeva ad ampliarsi.

Il consumo a distanza delle castagne avveniva quando erano state trasformate in farina e, quindi, in polenta o pane di mistura: nella cucina di molte zone dell’Appennino e della montagna toscana, in genere, le ricette legate alle castagne sono ancora innumerevoli, declinate in pietanze diverse.

Cereali, quindi, vino e olio, peraltro, quest’ultimo, destinato ai ceti più elevati, mentre era sostituito, nei ceti più modesti, dal lardo e dallo strutto di maiale.

I cereali erano usati per preparare il pane, ma anche per focacce, polente e zuppe o per confezionare la pasta, fresca per i ceti più abbienti e secca per i marinai o le famiglie più povere.

Il consumo di vino è sempre stato molto elevato: vino bianco e vino rosso, vernaccia e vernaccino, acquerello, leggero e acido, agresto, usato in cucina….

Se i Toscani non facevano grande consumo di carne[2], era notevole, anche in conseguenza del calendario liturgico, il consumo di pesce, il cui approvvigionamento avveniva grazie alla produzione ittica delle acque interne, fiumi, torrenti e paludi, sia a quella del litorale, sia a quella importata: il pesce era consumato nei giorni “di magro”, ma era usato anche per farcire crostate e preparare gelatine.

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Telemaco Signorini, ‘Strada del vecchio centro a Firenze’ Firenze, Galleria d’Arte Moderna Per gentile concessione

Non avendo la disponibilità di grandi estensioni da coltivare a foraggio, tra il bestiame di grosse dimensioni erano allevati solo i buoi da lavoro: ovini e caprini, suini e pollame erano destinati, invece, al consumo alimentare.

Anche tra le carni esisteva una gerarchia precisa, che prevedeva volatili, selvaggina e vitella per le mense più ricche; maiale, bue e castrone per quelle più modeste; animali da cortile erano condotti ai mercati cittadini dal contado.

Uova, formaggi, prevalentemente di latte di pecora, prodotti dell’orto: le città erano circondate da una vera e propria cintura di orti dove venivano coltivati cavoli, agli, cipolle, porri, insalate, fave, cicerchie, ceci, piselli, fagioli dall’occhio, tutti elementi classici della cucina fiorentina dell’ottocento.

Formaggi, uova, legumi, verdure e frutta rispondevano, però, nel loro consumo, a quanto raccomandato dalla Medicina del tempo, che prescriveva alimenti diversi, a seconda delle diverse classi sociali: verdure e legumi erano consigliati alle classi umili, mentre la frutta fresca, delicata e di veloce deterioramento, era destinata ai palati più nobili.

La frutta comprendeva, infatti, quella fresca e quella “serbevole”, in cui era inclusa anche la frutta secca, mandorle e fichi: quest’ultima fungeva da companatico dei più poveri.

Se il miele era il dolcificante più diffuso, in Toscana non era difficile procurarsi il sale, grazie anche ai depositi di salgemma della zona di Volterra: le spezierie proponevano, invece, prodotti particolari da consumare in cucina, come il pepe, la cannella, la noce moscata, lo zenzero o lo zafferano[3].

Dopo i fasti dei banchetti medicei, infatti, le difficoltà della situazione economica, la modalità di distribuzione della proprietà terriera, i rapporti di produzione, le frequenti carestie incidevano negativamente sull’alimentazione: la politica fisiocratica venne, allora, ad essere adottata come chiave di trasformazione dello Stato.

Se Giovanni Targioni Tozzetti pubblicava l’Alimurgia, ossia modo di render meno gravi le carestie per sollievo de’ poveri (1761), Antonio Cocchi aveva dato alle stampe la sua opera Del Vitto pitagorico per uso della Medicina (1743), in cui insisteva sull’importanza di una alimentazione parca e frugale, basata su un regime alimentare vegetariano[4].

Nonostante che la tradizione italiana abbia declinato, nel tempo, a vantaggio della cucina francese, tra Settecento e Ottocento vennero pubblicati ricettari riconducibili all’ambito toscano, come Il Panunto Toscano, di Francesco Gaudenzio[5], in cui l’autore dimostra di conoscere la vera essenza della cucina toscana[6], con il mantenimento della tradizione popolare lucchese, con la minestra di farro e la minestra di picchiante, o quella aretina del ciureo e dell’acqua cotta[7], peraltro aperta all’introduzione di alimenti altri, come il pomodoro.

I piatti a base di verdura rimangono numerosi anche nel XIX secolo: i Georgofili avevano riservato grande attenzione ai prodotti dell’orto, “la seconda madia”, cioè destinati ai momenti difficili, favorendo la loro introduzione anche sulle mense dei nobili e dei borghesi.

Molti ortaggi erano usati per preparare minestre, ribollite e pappe, distribuite dalle cucine economiche alle persone cadute in povertà.

Quando Firenze divenne capitale nazionale, dal 1865 al 1870, con l’avvento, in città, di una nuova compagine sociale, che veniva dal Nord, la “grande cuisine” francese si rivolse alle classi elevate e agli ospiti stranieri, ma la tradizione alimentare fiorentina e toscana si consolidò nella sua connotazione territoriale, in cui Artusi giocò un ruolo fondamentale. Tra gli anni di Firenze capitale e quelli delle avanguardie novecentesche, si venne definendo, quindi, una serie di pietanze, costruite sugli elementi basilari della cucina “nostrale” , che ancora oggi costituiscono la base del successo della cultura alimentare toscana[8].

 

[1] REPETTI E., Dizionario geografico fisico storico della Toscana, presso l’Autore ed Editore, Firenze Volume Primo, coi Tipi di A. Tofani 1833; Volume Secondo, coi Tipi di A. Tofani 1835; Volume Terzo, coi Tipi Allegrini e Mazzoni 1839; Volume Quarto, coi Tipi Allegrini e Mazzoni 1841; Volume Quinto, coi Tipi di Giovanni Mazzoni 1843

[2] PINTO G., Il consumo della carne nella Firenze del Quattrocento, in G. Cherubini, M. C. Salemi, G. Pinto, Della carne e del vino, Firenze, Parenti 1992, pp. 31-32.

[3] CIASCA R., L’arte dei medici e speziali nella storia e nel commercio fiorentino dal secolo XII al XV, Firenze, Olschki 1927, pp. 311-364.

[4] LIPPI D., Al tempo dei Lorena. Dalla fine delle carestie al trionfo della sobrietà, in Desinari nostrani, cit,., pp. 131-148.

[5] GAUDENZIO F., Il Panunto toscano, ritrovato e commentato da Guido Gianni con lessico di Adele Zito, Roma, Trevi 1974

[6] SARDI D., I ricettari toscani del Settecento e del primo Ottocento, in Desinari nostrani, cit., pp. 149-169.

[7] Ibidem, p. 153.

[8] NANNI P., Città e campagna nella cultura alimentare toscana tra Otto e Novecento, in Desinari nostrani, cit., pp. 187-213.

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